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Uno degli esercizi più difficili che ho dovuto fare recentemente in un corso di scrittura, è stato scrivere sulla felicità.

Ci ho messo un giorno a capire di cosa avrei voluto scrivere. Il fatto è che ci mettiamo poco a capire cosa ci fa soffrire, perché i dolori sono piuttosto facili da individuare.

Riuscire a mettere a fuoco la felicità invece, che è fatta di mille sfumature e che per ognuno di noi ha una forma diversa in base a miliardi di fattori, è complicatissimo. La felicità non ha una definizione unica.

Per fare l’esercizio però, avrei dovuto tirare fuori un esempio concreto, pertanto mi sono sforzata a delimitare un periodo di tempo da un certo giorno in poi e ho pensato a qualcosa o qualcuno che mi aveva fatto ridere tanto, perché ridere è una cosa semplice ma è la cosa che forse amo di più e che associo ad un certo tipo di sensazione così leggera che mi fa sentire felice.

Mentre cercavo idee complicate, ad un certo punto mi è tornata alla mente una sensazione di felicità semplice, associata proprio al ridere. In quell’occasione ero sola, lontanissima da casa, ridevo come una pazza ma ero allo stesso tempo in lacrime, di gioia però.

E quando una coppia di spagnoli accanto a me si è messa a ridere con me, ho capito che era felicità autentica e che era anche contagiosa. Mi sono ricordata che è così quando sei veramente felice anche per cinque minuti. Sono quei momenti in cui non capisci niente e ti senti un po’ brillo di qualcosa che non sai che cos’è.

In quel caso era felicità leggerissima. Che compare a sorpresa e ti rifornisce di carburante. Era fatta di quella risata a crepapelle che ti fa venire male agli addominali e ti fa sentire brillo senza aver bevuto neanche un bicchiere. Quella alla quale ho dedicato l’esercizio di quel corso e dedico anche questo post.  


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