Quando ho letto che Vanity Fair avrebbe dedicato due giornate intere a parlare del cambiamento, ho segnato subito le date. Adoro Vanity Fair e, al contempo, mi trovo al centro di cambiamenti più o meno profondi nella mia vita.
Come molti, io, alle prese con i cambiamenti, spesso mi sento sola. Quando ho sentito che qualcuno ne avrebbe parlato per due giorni, è come se mi fossi sentita meno sola e mi sono incuriosita. D’altronde, se è stato organizzato un festival così blasonato su questo tema, vorrà dire che ne è stato percepito il bisogno. Bene, ho pensato. “The change is you” è il titolo della manifestazione. È vero, grazie per ricordarmelo, il cambiamento sono io. Ma da dove si inizia?
Tutti nel corso della vita si trovano alle prese con dei cambiamenti. Andiamo a scuola molti anni ma nessuno ci fornisce un manualetto per affrontarli. Né per capire quando è arrivato il momento di fare un cambiamento né per capire come farlo. Possibile? Forse nessuno veramente lo sa? O forse è qualcosa che si impara ma non si insegna?
Pensare ai cambiamenti può spaventare o provocare adrenalina. Non si capisce come mai la stessa azione possa provocare reazioni così diverse. Nel primo caso, spesso i cambiamenti li procrastiniamo. Spostiamo in avanti la fatica, facendo finta di stare facendo qualcosa che in realtà rimandiamo continuamente, come le sveglie la mattina. Qualcuno di noi ne mette sei per alzarsi solo al trillo dell’ultima. Siamo fatti così. Nel secondo caso a volte ci facciamo prendere dalla fretta di aggredirlo quel cambiamento e magari sbattiamo la testa contro un muro, cadendo doloranti.
E come ci suggerisce Drusilla Foer intervistata da Simone Marchetti, Direttore di Vanity Fair, l’urgenza del cambiamento, a volte ci fa fare passi falsi. Il cambiamento, secondo Drusilla implica fatica e rinuncia ma necessita dei suoi tempi, di calma. E lei lo dice scandendo le parole come un solfeggio, quasi ipnotizzandomi e convincendoci all’istante senza neanche doverlo ripetere. Ci regala, tra le altre, anche un’altra perla, assimilando il cambiamento alla rivalutazione. E la scrivo anche qui, questa perla, per non rendere evanescente il concetto, poterlo rileggere e ricordare oggi o domani o quando sarà, a me o a qualcun altro che avrà davanti a sé qualcosa da cambiare e che non saprà che valore attribuirgli.
Pensiamolo come una sorta di mantra, cioè “non dimenticare di dare un valore alle cose che occupano un posto nella tua vita”. Mi sembra un buon punto di partenza per lavorarci su. E poi lei ci dice anche un’altra cosa che spesso non consideriamo. Quando si cambia, magari lasciandosi alle spalle una storia d’amore, è importante lasciare un po’ di amore lì da qualche parte, soprattutto per noi stessi, che sarà come carburante per il nostro cambiamento (questo lo aggiungo io).
Quando penso all’amore per se stessi dopo una relazione, penso anche alle donne che dentro casa vengono maltrattate, fisicamente o psicologicamente, per le quali ritrovare l’amore per se stesse ed il modo per cambiare ed andare oltre, non è una opzione ma rappresenta la possibilità di vivere di nuovo.
A me è successo di dover cambiare qualcosa per forza e di innescare di lì dei cambiamenti a catena. Poi di guardarmi indietro e dire “ero io quella lì?” E quando ho ascoltato l’intervista ad Arisa ho capito che non sono l’unica ad interpretare il cambiamento come una trasformazione, perché no, anche fisica. A volte si ha bisogno di cambiare la pelle come i serpenti per lasciare indietro una parte di vita che ci ha fatto soffrire che resta insieme a quella te con i capelli scuri e i capelli lunghi che non sopportava vestire di rosa e che non avrebbe mai seguito un corso di Crossfit in palestra e ora è bionda, si vestirebbe sempre in Pantone Fucsia Valentino e senza Crossfit non vive. Oggi, poi domani chissà. Lo abbiamo capito, tanto, si vive di cambiamenti. O li vogliamo chiamare miglioramenti?
Il cambiamento si innesca a volte quando stiamo scomodi. Se non riusciamo più a riposare bene su quel materasso e ne andiamo a comprare uno nuovo. Quando quelle scarpe con il tacco sono così fastidiose che torniamo a casa a metterci delle sneakers che calzano come pantofole. Quando quella relazione, come le scarpe, non ci calza più a pennello ma non si riesce a fare un’azione sartoriale per adeguarne la taglia alle nuove esigenze della vita che inevitabilmente muta insieme alle persone che abitano quella relazione. Se stiamo scomodi prima o poi la necessità di cambiare la senti come un sasso sulla bocca dello stomaco.
E se il cambiamento fosse inteso come progressione?
Ogni intervista che sento mi convince sempre di più di aver fatto bene ad essermi messa in ascolto del Festival di Vanity Fair. Tiziano Ferro tocca le corde della fragilità e del dolore che sì, sono leva del cambiamento che è ovunque intorno a noi ma che suona meglio se letto come progressione. A volte sbagliamo illudendoci di poter cambiare mirando alla perfezione senza renderci conto che sia il bersaglio non corretto. Progredire, non mirare alla perfezione, può essere la giusta via per cambiare.
Tutte queste riflessioni sono la prova che per capire meglio le sfaccettature della vita, una strada sia ascoltare le storie degli altri. Non per copiare il modo altrui di risolvere i problemi, si intende, ognuno è diverso. Ma le storie con i loro piccoli esempi ci fanno capire qualcosa di più anche di noi e ci possono convincere che il cambiamento vada affrontato con coraggio, senza vergognarsi delle proprie fragilità e con un ritmo che regoliamo noi. Il cambiamento siamo noi e le nostre storie. Non esistono strade già battute ma piccole stelle polari che possono fare da guida, indicate da chi, in un modo o nell’altro con le proprie cicatrici o con i propri successi, è lì per testimoniarlo e offrirci quella spintarella per incitarci dicendoci “dai, su, prova! Che potrebbe valerne la pena. E datti una mossa. Ma senza troppa urgenza”. Come puntualizzerebbe Drusilla tranquillizzandoci.
L’equilibrio. Sempre e comunque, anche mentre si cambia.